(Lo studio di Gigi Rigamonti; tutte le foto sono di Patrizia Cussigh, IG Travelframes; BestofMilan)

Ci diamo appuntamento nella sua villa di San Pantaleo, in Sardegna, un luogo incantevole, dove su un enorme parco incombono i graniti rosa, tipici di questa zona, che si stagliano nell’azzurro del cielo.

Gigi Rigamonti, “Per aspera ad astra”

Io e Patrizia Cussigh, la mia amica fotografa, percorriamo uno sterrato accidentato, lasciato così di proposito. Gigi Rigamonti ci accoglie esclamando: “Per aspera ad astra”. Prima di arrivare alle stelle, è necessario attraversare le difficoltà della vita. Ed eccole lì le stelle, ci sono tutte: la natura esplosiva, la sua casa accogliente, un tripudio di colori e di oggetti che ci parlano di Gigi e della sua storia; lo studio, un locale separato, immerso nel bosco ricavato da uno stazzo gallurese, pieno zeppo di quadri, sculture, opere realizzate con materiali diversi. Tela, carta, legno, pietra, resina, metallo, iuta, non c’è materia che non sia stata plasmata, modellata, assemblata, colorata, dipinta, disegnata, forgiata dall’artista. E infine la libreria, che invita al raccoglimento, un altro locale segreto, separato dal resto, creato fra le rocce. Da qui, circondati da un mare di volumi di tutti i tipi, attraverso i vetri della finestra, si scorgono le tane dei cinghiali. 

Lo studio e l’odore dell’arte

Ci accomodiamo nello studio, immergendoci in un mondo caleidoscopico che sorprende la vista, con l’avvicendarsi di colori, luci, figure, in cui ognuna di queste tele, ognuna di queste sculture ci parla del modo di esprimersi di Gigi, di vivere e sentire la vita, le sue emozioni e i suoi accadimenti. Quella di tutti i giorni e quella dei fatti internazionali. L’amore, la libertà, la guerra, la prigionia, il dolore, il sogno, l’ibridazione. Nel mezzo, un tavolo ricolmo di materiali, strumenti da lavoro e colori in acrilico. Ci facciamo avvolgere dall’odore dell’arte.

(La villa di Gigi Rigamonti a San Pantaleo)

Quattro chiacchiere con l’artista, l’intervista ha inizio

Vorrei cominciare la nostra conversazione chiedendoti quali tappe della tua vita artistica, così intensa e varia, ti piace ricordare. In particolare, quand’è che hai cominciato a pensare che ti sarebbe piaciuto fare l’artista?

Fin da ragazzino. I miei primi quadri li ho fatti a 15 o 16 anni. Vengo da una famiglia borghese: mio padre era un commercialista e non vedeva di buon occhio questa mia aspirazione. Ma io sono stato sempre molto ribelle. Quindi, dopo aver concluso il Liceo scientifico, mi sono iscritto a Economia e Commercio a Pavia. Ma avevo stretto un patto con mia madre: nonostante la carriera universitaria, non avrei mai seguito le orme paterne. In seguito, ho frequentato il Royal College of Art di Londra per imparare l’arte della fotografia, visto che per me era fondamentale essere economicamente indipendente. Ho fatto il fotografo per 10 anni”.

Visto che hai citato la fotografia, come hai ricordato in una tua recente intervista, Henry Cartier Bresson diceva che un’opera nasce dall’incontro dell’occhio, del cuore e della testa. Sei d’accordo con questa affermazione?

“Direi di sì. Per me, l’ispirazione proviene dalla mente, mentre la creatività è più una questione di pancia. Mi piace molto pensare; sono un irrequieto, non sono mai soddisfatto. Ora, ad esempio, sto lavorando a un dipinto che ancora non parla alla mia pancia. Non so se lo cancellerò, o se andrò avanti. Stanotte ho pensato di ricoprirlo con il grigio chiaro, che è un colore che utilizzo molto”.

(Happypensy con Gigi Rigamonti; accanto il tavolo ricolmo di strumenti da lavoro) 

Il colore nei tuoi lavori è un elemento chiave: cosa vuol dire per te colore? Cosa cerchi di trarne?

“Non do un significato ad ogni colore. Per me il colore è astrazione, allontanamento dal soggetto quando c’è. Il colore è la forza di ciò che rappresenti senza rappresentarlo. Mi interessa la parte estetica, il bilanciamento e l’equilibrio. Quindi come comincio a lavorare su un’idea, il colore viene da solo. Arriva lui. Uso i colori puri, li mischio molto poco”.

Tornando alla tua storia, che ne dici di ripercorrere le tappe principali?

“Negli anni 70, giravo il mondo in autostop. Sono andato in Afganistan, Turchia e Iran, paesi stupendi ma difficili da attraversare, soprattutto in quegli anni, con sacco a pelo e zaino sulle spalle. Avevo i capelli lunghi, i pantaloni a fiori, le magliette stracciate, insomma ero un vero e proprio hippy. Quando sono tornato da quei viaggi, vivevo da solo fra Pavia, dove studiavo, e Milano, dove avevo lo studio fotografico in via Plinio. Dopo mesi che ero in giro vado a trovare mia mamma. Nessuna traccia. “Tua mamma ha comprato una fabbrica” mi dice mio padre. Era una bella ribelle anche lei! Da casalinga a imprenditrice. Così, di punto in bianco, aveva comprato la fabbrica La Rosa, azienda leader nel mondo nel settore della produzione di manichini”.

Il manager della beat generation

Quindi hai cominciato a lavorare nella fabbrica di famiglia?

“Non subito, facevo la mia vita: mi sono avvicinato alla politica e ho cominciato a frequentare Lotta Continua, anche se i compagni non mi convincevano proprio del tutto: io ero molto più libero, avevo la mente aperta, mi sentivo diverso, organizzavo dibattiti politici e concerti aperti a tutti. 

In seguito, mi sono sposato con la mia prima moglie Cesarina e abbiamo avuto un figlio: io non mi fermavo mai, continuavo a viaggiare, San Francisco, Salvador de Bahía, New York. Ero cosmopolita, giravo il mondo, e portavo mio figlio con me, fino a quando mia madre non mi ha chiesto di aiutarla a risollevare le sorti della fabbrica.  Erano gli anni ’80. 

Dapprima ho cercato di capire i meccanismi che regolano questo mondo, occupandomi dei contatti con i distributori e dando impulso alle vendite. Ma poi mi sono occupato della parte creativa che era quella che mi interessava veramente. Nella fabbrica c’era un reparto gessi e sculture straordinario. Lì ho cominciato a immergermi nella scultura, nella materia. Detestavo i manichini che producevano altri concorrenti, estremamente iperrealistici. Io li ho rivoluzionati, decapitati, mutilati. Dopo essere stato a Parigi, ho realizzato un’opera che replicava le forme di una modella conosciuta nella capitale francese. Un busto di donna senza testa in fusione di alluminio, che ho chiamato Tosca, destinata ai negozi di Gianni Versace, diventata poi un’icona, l’oggetto culto del brand italiano”. 

 

(Gigi Rigamonti con Tosca, diventato l’icona dei negozi di Versace)

Hai collaborato con alcuni dei nomi più autorevoli della moda: Dior, Armani, Valentino, Chloè, Balenciaga, McQueen e Ferrè. I tuoi lavori vengono presentati nelle mostre e spazi espositivi più importanti del periodo, come il Metropolitan Museum of Art al Guggenheim, l’Ara Pacis al Somerset House, il Castello Sforzesco, il Palais de Tokio, giusto per nominarne alcuni. Che rapporto c’è stato con il mondo della moda?

“Mah, non ho avuto un legame particolare con questi stilisti, se non con Versace e Gianfranco Ferré. Quest’ultimo un personaggio straordinario con cui ho stretto un legame d’amicizia. Gianfranco mi sfidava, mi chiedeva di realizzare sculture in grado di valorizzare abiti impalpabili. Io disegnavo e modellavo manichini sempre più arditi. Abbiamo organizzato insieme al Metropolitan d New York una mostra per i 50 anni di Dior di cui Gianfranco era diventato il direttore creativo. Poi le cose sono cambiate, gli stilisti sono diventati più rigidi, non accettavano più la creatività ma volevano imporre le loro scelte, i loro disegni. A quel punto, ho deciso di abbandonare”.

Artandgallery, uno spazio dedicato alla comunità, all’avanguardia per quei tempi

Fra gli innumerevoli progetti che hai realizzato, ce n’è qualcuno che ti piace ricordare?

“Nel 2001 ho lanciato un progetto di cui sono particolarmente orgoglioso, ho creato la mia galleria, Artandgallery. Non si trattava di una galleria tradizionale, piuttosto di uno spazio culturale nato da un vecchio teatro, che ospitava una serie di eventi, performance, esposizioni dedicate a una serie di temi: dall’amore alla felicità, dalla paura al nome di Dio, all’economia. Ho rotto gli schemi passando da uno sterile e polveroso modello espositivo a un ambiente catalizzatore di idee, e di pulsioni. Volevo dare voce a tanti artisti diversi, a cui chiedevo in prestito le loro opere, creando così movimento e dibattito”. 

Ho letto che a un certo punto del tuo percorso artistico, ti rifiutavi di esporre le tue opere, fino a quando non hai incontrato Arturo Schwarz…

“A quel tempo, non volevo più esporre le mie opere al pubblico. Ne ero geloso. Erano i miei diari, un fatto privato, intimo. Nelle mani di chi sarebbero finite? E poi ho incontrato Arturo Schwarz, un grande intellettuale, poeta, storico dell’arte, gallerista, una delle ultime colonne dell’arte del Novecento. Insomma, una figura straordinaria che ha segnato profondamente la mia vita e la mia traiettoria professionale. Rimase colpito dai miei quadri, che riflettevano il mio cognome Rigamonti, quadri in cui la semantica diventa opera d’arte. La riga e i monti erano la rappresentazione del mio io, il mio marchio di fabbrica.

Arturo, con fare provocatorio, mi diede una scossa: “Ho fatto il testo di presentazione della tua futura mostra” disse “adesso tocca a te”.

E così feci, anche se non vendetti nulla: su ogni tela esposta mettevo un bollino rosso, come se fosse già stata venduta. Non volevo che le mie opere andassero a finire nelle mani di persone sconosciute, volevo tenerle per me”.

 

(Biografia di Gigi Rigamonti di Manuela Gandini con commento di Arturo Schwarz)

Non andrò mai in pensione. L’artista deve saper vivere della sua arte.

Ma in seguito la tua visione è cambiata

“Sì, io non andrò mai in pensione, anche se tecnicamente, visto il mio percorso manageriale in azienda, sono già un pensionato. Secondo me l’artista deve saper vivere della propria arte, anche se ancora oggi mi risulta difficile lasciare andare certe opere che racchiudono mondi connessi alle esperienze di vita più significative. Ma, d’altro canto, dover vendere le mie opere alla fin fine è per me un grande stimolo. Mia moglie Irina è diventata la mia gallerista e promuove la mia arte con grande successo e determinazione”.

L’energia dei luoghi 

Che rapporto hai con la Sardegna?

“Sono molto legato a questa terra, per me la Sardegna è energia pura. Io sento l’energia pazzesca che mi trasmette questo luogo che mi spinge a esprimermi al meglio. E poi qui ho conosciuto mia moglie”.

 

(Uno dei quadri della serie Screamers)

Quali sono i momenti attivatori della tua creatività? Hai una disciplina particolare?

Lavoro nel mio studio tutti i giorni. Per me non ci sono sabati e domeniche; la mia creatività si esprime seguendo un flusso continuo. Vi sono opere connesse alle mie personali esperienze di vita, come ad esempio la serie Screamers (Gli urlatori), in cui volevo esprimere la mia rabbia verso l’incomprensione da parte degli altri rispetto a determinate mie scelte, altre che prendono spunto dai fatti del mondo. Le guerre, l’odio, il dolore. Una delle mie ultime opere si intitola “Una finestra sul vuoto”. Racconta del mondo contemporaneo, con il suo analfabetismo mentale, verbale e emotivo. Un disagio, un vuoto culturale che porta con sé l’incapacità di ragionare, l’inaridimento della vita interiore e desertificazione della vita emozionale. Il mondo si sta impoverendo”.

 

(La libreria nel bosco)

So che sei un grande lettore: che libro hai sul comodino in questo momento?

“Io sono un lettore bulimico, leggo sempre più libri contemporaneamente. Credo di leggere circa 40 volumi all’anno, se basta. In questo momento sto leggendo la biografia di Oppenheimer, la trilogia di Evangelisti, ma ce ne sono tanti altri che mi stanno aspettando”.

Grazie Gigi per questa chiacchierata e per aver condiviso con tanta disponibilità alcuni momenti della tua vita personale e i tuoi pensieri.

Chiudiamo così, e mentre usciamo dallo studio diamo uno sguardo alla montagna di CD che accompagnano Gigi nei suoi momenti di creazione: Rachmaninov, Weather Report, Miles Davis, Beatles e tanti altri pezzi da 90 accompagnano l’artista nel processo creativo, ma non solo. Poi c’è il silenzio.

Stiamo per imboccare in senso inverso il cammino per Aspera ad Astra, lasciando alle spalle le stelle, e continuo a immaginare il Gigi figlio della Beat Generation, con i suoi capelli lunghi a bordo di un furgoncino Volkswagen tuto decorato di fiori e con un grande punto interrogativo sul tetto. Il Gigi imprenditore con un libro di Kerouac sottobraccio, mentre dirige la fabbrica con il nome più stiloso che ci sia: La Rosa. Il Gigi indomito, l’irrequieto, il provocatore. Il Gigi innamorato della sua affascinante moglie Irina Sivakova (@irinadartegallery), musa ispiratrice di molte sue opere e instancabile promotrice dell’arte del marito. Il Gigi delle grandi esposizioni a Miami, Tokyo, New York, e installazioni a Shanghai e a Pechino. Il Gigi che crea un’opera “Danza” con una installazione di 19 sculture per una nave della Costa Crociere, sempre in navigazione per il mondo. Ma anche l’artista che si impegna per la comunità, l’attenzione verso l’ecologia, verso il riciclo. 

Dinamismo, curiosità, energia e il modo partecipativo di stare al mondo sono tratti che fanno parte della sua essenza.

 

Difficile trovare un’immagine che lo comprenda tutto: fuoriesce da ogni cornice immaginaria, per quanto ci si sforzi ad allargarla.

 

E così scelgo, me ne porto via una. Quella del Gigi Ribelle. 

 

Conclusioni:

  • La contemplazione di opere artistiche offre una formidabile occasione di stupore. Il provare meraviglia ha un potere taumaturgico, calma l’ansia e il dolore attraverso il rilascio di ossitocina, l’ormone dell’amore 
  • Frequentare persone creative fa bene allo spirito perché sanno essere contagiose
  • Leggere molto apre la mente e attiva la creatività
  • Così come fanno gli artisti, se ne avete la possibilità, una volta andati in pensione (se non è stato possibile nella vostra vita produttiva) prendete in considerazione l’idea di fare un lavoro che amate, che risponde meglio alla vostra vocazione
  • Siete andati in pensione e volete provare a sperimentare strade sconosciute? Calatevi in altre vesti, iscrivetevi a un corso di disegno, di pittura. Probabilmente non raggiungerete mai il livello di Gigi Rigamonti, come io non sarò mai Virginia Woolf nel campo della scrittura, ma comunque andrà, non sarete misurati in base alla vostra performance…non è liberatorio?

Ora tocca a te

  • C’è qualcosa che ti ha colpito in questo racconto? Qualche spunto utile per la tua attuale o futura tappa della vita?

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